Rotellando in Sudafrica con Guillermo e Alessandro

Si riparte e con l’adrenalina a mille. Il prossimo viaggio di Rotellando ha come meta uno dei luoghi che amo maggiormente: il Sudafrica. L’Ente del Turismo Sudafricano ci accompagnerà e ci sosterrà durante questo viaggio. E’ una grande e bella opportunità e l’itinerario è molto interessante. Il Sudafrica è un paese molto attento al turismo accessibile, qualche anno fa ci andai e mi accorsi di quante  possibilità vi fossero: dal safari al Parco Kruger, alla passarella per osservare i pinguini al Capo di Buona Speranza, con molta semplicità trovai un auto modificata a noleggio, ma soprattutto rimasi affascinato dalla disponibilità dei sudafricani, forse perché abituati a convivere con le diversità anche se vi sono delle suddivisioni molto forti.

Avrò il piacere di rotellare con due compagni d’eccezione e questo è un altro motivo di gioia. Saranno con me, on the road, Guillermo Luna, fotografo, e Alessandro Abrusci, videomaker; entrambi collaborano con l’associazione Shot4Change. La data per la partenza è fissata per il 17 giugno; io partirò da Malpensa, Guillermo da Roma e Alessandro da Bari, in questo modo copriamo tutti i principali aeroporti italiani (nord, centro e sud). Ci incontreremo a Monaco, poi tutti insieme voleremo alla volta di Johannesburg, per poi proseguire per Cape Town e dare il via a questa avventura

L’energia di Jozi !

Arrivati a Monaco, il trio dell’Ave Maria s’incontra. Se volete potete anche chiamrci Qui, Quo e Qua, che sarei poi io ! Il nostro volo parte alle 22:00 con atterraggio previsto alle 8:30 del mattino a Johannesburg.  Il fuso orario non varia e l’orario resterà lo stesso, cambieremo solamente stagione, troveremo l’inverno e passeremo da 35 gradi italiani ai 3 gradi sudafricani.

Johannesburg ci appare con i suoi grattaceli da una parte e le costruzioni ad un piano dall’altro, solo una dei tanti contrasti di questa città.  L’ordine e il caos,  la modernità e la povertà, il futuro e il passato, il bianco e il nero, il nero e il nero. Si avverte da subito che vi sono molte Johannesburg al suo interno che cercano di convivere. Da buoni italiani chiediamo, immediatamente, dove si trova il “centro”, il luogo in cui secondo la nostra logica europea vi sono le attrattive più interessanti di una città, molto spesso ci convinciamo che avendo visto il centro di un luogo abbiamo visto e compreso tutto di quel posto, ma ci sbagliamo. A Johannesburg il centro città è la parte meno interessante, vi sono solamente uffici e zone commerciali, vive dalle 09:00 alle 17:00 poi il vuoto o quasi. La parte della città più vivace ed interessante si trova invece in “periferia”. Alla domanda “dove si può andare?”, la risposta è un’altra domanda “cosa ti piace?” e ti rendi subito conto che devi abbandonare le logiche che ti porti da casa, ovvero quella di passeggiare su e giù per un corso o all’interno di vie pedonali. Jozi – così viene anche chiamata in zulu – che significa luogo d’oro, è nata come città satellite alla fine dell‘800 per l’estrazione dell’oro e si è ingrandita sempre di più diventando una delle città più importanti dell’Africa ed è in continua crescita, è una città giovane e sta cercando di trovare la sua identità.

Il nostro albergo Protea Hotel si trova a Melrose, uno dei tanti centri residenziali costruiti in città, luoghi sorti da poco tempo in cui in pochi km quadrati vi sono ristoranti, cinema, hotel ed abitazioni, insomma un piccolo villaggio in cui tutto è costruito con precisione e con gusto, luoghi come questi sono in continua crescita.

In questa Jozi che cresce, sono il buon gusto e la creatività che mi lasciano positivamente colpito. Basta recarsi  in alcuni sobborghi come Rosebank e Parkhurst che si percepisce da subito come la creatività la faccia da padrone. Luoghi in cui un tempo sorgevano fabbriche, ora sono popolati da negozi d’abbigliamento, gallerie d’arte, bar e ristoranti. Non vi sono le grandi catene ma giovani che con la loro creatività aprono piccoli negozi. Man mano che giriamo per questi sobborghi mi accorgo di quanto questa energia mi meravigli, persino la gentilezza e i sorrisi dei commessi mi lasciano perplesso, poi mi rendo conto che non sono più abituato a questo tipo di “positività” perché in Italia non c’è più. Con questa dose di ottimismo giriamo sino a quando arriva l’ora del tramonto. Il luogo migliore per ammirarlo è al 50 piano del Carlanton Centre, da lì si può ammirare uno skyline bellissimo, a tratti pare di essere a New York, con la differenza che non si vede il mare, non si vedono fiume e nemmeno laghi, però si è circondati da moltissimo verde.

Soweto in tuk-tuk

C’è Johannesburg con la sua energia, la sua modernità e la sua creatività e poi c’è Soweto. Jozi non avrebbe senso senza Soweto, che la alimenta, mentre Soweto avrebbe senso comunque. Soweto, l’abbreviazione di South West Townships, nasce quando i bianchi decisero di stare da soli in una parte della città, obbligando i neri e i coloured a spostarsi in un’altra zona. I neri che abitavano nei vari quartieri in cui vi erano i bianchi furono obbligati a lasciare le loro case e a trasferirsi nelle zone che erano state “create” per loro; fu un trasferimento obbligatorio e forzato, e tutti dovettero lasciare amici e parenti. Ad ogni individuo venne dato un “book life” in cui vi erano indicate le generalità ma soprattutto a quale razza facessero parte – biachi, neri o coloured. Chi veniva trovato sprovvisto di questa “carta d’identità” veniva arrestato oppure cacciato nel proprio paese di appartenenza. La strada che circondava la township era costantemente sorvegliata dai militari. In poco tempo prese il via quella che venne definita apartheid ! Fino alla fine degli anni ’90, le persone di colore non poterono vivere in luoghi in cui abitavano i bianchi, tranne se svolgevano attività come giardinieri o domestici presso le loro case. Tra i neri vi erano molti professionisti (medici, avvocati, imprenditori ecc) che economicamente potevano permettersi di avere delle abitazioni migliori di quelle che il governo gli aveva assegnato. Molti iniziarono pertanto a costruire delle nuove case/ville in alcune zone della township; questo è il motivo per cui, ancora oggi, a Soweto si vedono abitazioni “normali” a un piano, poi, subito accanto, si scorgono ville di prestigio, come in un qualsiasi quartiere di una qualsiasi città, e poi a pochi metri ci troviamo di fronte alla Soweto delle bidonville con case fatiscenti.

Giriamo Soweto con un pulmino, non abbiamo scorta e nemmeno carri blindati che ci difendono, scendiamo e passeggiamo tranquillamente senza essere derubati, questo per dire che molto spesso delle zone vengono etichettate come pericolose e piene di rischi forse con un po’ troppa leggerezza – a Johannesburg ce lo sentiamo ripetere molto spesso. Sicuramente in un certo periodo lo saranno anche state, ora non sono posti in cui l’amore e la pace trionfano, ma nemmeno vieni assalito appena ti vedono con una macchina fotografica al collo. Bisogna fare attenzione, come in ogni luogo, bisogna evitare di ostentare la propria “ricchezza” dove la povertà la fa da padrone. E’ irrispettoso sfoggiare iphone, ipad, Louis Vitton e macchine fotografiche da migliaia di euro in luoghi in cui gli abitanti faticano ad avere un tetto decente oppure hanno un reddito che non è sufficiente per dare da mangiare ai propri figli.

Proseguiamo la visita in maniera “alternativa”; l’Ente del Turismo Sudafricano ci dà la possibilità di scoprire Soweto in un modo nuovo e divertente ovvero a bordo di colorati tuk-tuk. Questo tour alternativo oltre a darci la possibilità di entrare in contatto diretto con gli abitanti, oltre al fatto che mentre scorrazzi per le strade tutti di salutano e ti sembra di essere la Regina Elisabetta, è un modo molto comodo ed accessibile, per girare la cittòà. In pratica si passa dalla sedia a rotelle ad un’altra sedia a “motore” e la carrozzina (se è pieghevole) viene messa sul tuk-tuk oppure si può decidere di lasciarla alla partenza.

Grazie a questo tour su ruote a motere si entra in stradine in cui l’auto faticherebbe ad entrare e si ha un dettaglio maggiore nella township. Arriviamo in un mercato proprio nella giornata in cui viene data la pensione, pertanto le signore appena hanno incassato il “cospicuo” importo dato dallo Stato (circa 1.000 rand mensili ovvero € 80,00) sono pronte a darsi allo “shopping forsennato”. Il mercato offre verdura, un po’ di frutta, pasticci dolci o speziati non ben definiti, c’è anche la “fiera del bianco” dove si possono acquistare qualche lenzuolo, degli asciugamani, felpe e magliette. Questa è la Soweto in cui inizi a sentire i tuoi rimorsi da turista occidentale, rimorsi che di regola durano circa 5/7 minuti, abbiamo sempre la memoria corta, da pesciolini rossi. Durante il giro, inizio a soffrire di mancanza di attenzioni: Guillermo ed Ale non mi fotografano più, i bambini mi hanno rubato la scena ! Tutti gli obiettivi sono per loro, appena sentono un click, si mettono in posa, che nemmeno Naomi Campbell sarebbe all’altezza. Io non ho alcuna possibilità per vincere la competizione, è proprio vero è un attimo perdere la scena ! Mi diverto a girare per questo luogo, mi piace, sorrido perché gli altri sorridono, sono contento di stare qua con questi tuk-tuk gialli con scritto “peace and love” è bello, vorremmo restare per molto tempo ma dobbiamo andare e ci mancherà questa parte di Soweto.

Separazione e liberazione Sudafricana

C’è un luogo che non si può non visitare a Soweto o più precisamente ad Orlando West ed è il posto in cui è sorto il monumento ad Hector Pieterson. Il 16 giugno 1976, gli studenti neri di Soweto scesero in piazza per protestare contro il governo che aveva imposto l’obbligo di utilizzare l’afrikaans, lingua parlata dai boeri ma non dalla popolazione di colore del paese, come lingua unica i tutte le scuole Sudafricane. Quella mattina Hector, che aveva solo 13 anni, decise di accompagnare la sorella più grande durante la manifestazione, quando la polizia apri il fuoco sui manifestanti un proiettile lo colpì a morte. La fotografia che mostrava un giovane, Mbuyiswa, con in braccio il corpo esanime di Hector, e al suo fianco la sorella di Hector, Antoinette, che urlando chiedeva aiuto, fece il giro del mondo e divenne il simbolo della brutalità inpiegata contro coloro che lottavano contro l’apartheid.

Fa un effetto strano vedere intere scolaresche di bambini, sia bianchi che neri, che ridendo e giocando si fotografano davanti all’immagine di Hector morente. Fa effetto vedere come ora gioia e libertà sprizzano per quelle tesse vie che 30 anni fa erano sede di battaglie, di contestazioni che portavano anche alla morte. Fa effetto vedere come il tempo riesce a lenire le ferite ma non ad eliminare totalmente le cicatrici.

I bambini cantano nel giardino della casa di Mandela che ora è un museo, ma vedo ancora troppe scolaresche tutte bianche o tutte nere. E’ bello vedere tutti questi bimbi che ora possono decidere che lingua parlare, in quale panchina sedersi, non sono obbligati a ricordare il colore della loro pelle prima di entrare in un luogo pubblico per capire da quale porta entrare, non ci sono più “area only white” e a dire il vero pare impossibile che possono esserci stati. E’ doloroso pensare quanto la diversità faccia soffrire prima diventare normalità.

L’apartheid, che significa separazione, è rimasta in vigore in Sudafrica sino al 1993. Io avevo 23 anni e il mio ricordo è quello che in un paese a me molto lontano c’era la lotta tra “bianchi” e “neri”, ricordo in particolare che molti cantanti da Bowie, agli U2 a Madonna non andavano a fare concerti in quel paese perché contrari al regime politico. Ricordo il concerto che si tenne nel 1988, a Londra, per il 70° compleanno di Nelson Mandela, ricordo i messaggi che i cantati ospiti sul palco lanciarono quella sera,  ma sembrava tutto così lontano, così distante. Ora che mi trovo qua ed inizio a capire, anzi solo ad immaginare, quello che fu l’apartheid – successivamente definita dall’ONU crimine contro l’umanità – comprendo con quanta superficialità spesso seguiamo gli eventi che leggiamo sui giornali o vediamo in televisione durante la trasmissione dei telegiornali.

I bianchi non amano parlare di quel periodo, non amano dire che se un nero li incontrava sul marciapiede era obbligato a scendere, lo raccontano come se delle regole imposte da non si sa bene chi li obbligavano ad accettare questa separazione. Peccato che “i chi sa chi” erano, sono i bianchi, noi! Nessuno voleva, ma tutti volevano. Tutto torna e la separazione che è stata imposta ai neri, finì col danneggiare gli steddi bianchi; il Sudafrica per molto tempo venne isolato dal mondo, nessuno voleva andarci, nessuno voleva averci a che fare, nessuno voleva andare in un paese che emarginava, ne cantati ne politici ne turisti, nemmeno lo sport li voleva e non furono ammessi alle olimpiadi. Il mondo li avev estraniati. Separazione chiama separazione!

La nostra visita per Soweto prosegue lungo Vilakazi Street, unica via al mondo che può vantare di aver ospitato le case di ben due Premi Nobel per la Pace: Nelson Mandela e Desmond Tutu. Tutu  definì il Sudafrica un paese arcobaleno per via delle sue diversità e si batté per l’uguaglianza di razza, classe sociale e sesso.

Arriviamo all’Apartheid Museum. L’ingresso del museo è contraddistinto da una porta per “only whites” ed un’altra per “not whites”; si inizia il percoso proprio separando. Si passa poi a conoscere meglio la storia del Sudafrica con l’avvenimento che ha cambiato per sempre la faccia di questa nazione: la ricerca dell’oro. Fin da subito si vuole porre l’accento sul fatto che i bianchi, che hanno portato la “civilizzazione”, non possano mescolarsi ai negroidi. Si porta avanti la teoria che etnie diverse non potessero convivere insieme così da far credere che “per il bene di tutti” l’unica soluzione fosse l’apartheid – che mise radici a partire da 1948.

Le principali leggi che stavano alla base dell’aparthid erano:

  • proibizione dei matrimoni interrazziali;
  • legge secondo la quale avere rapporti sessuali con una persona di razza diversa diventava un fatto penalmente perseguibile;
  • legge che imponeva ai cittadini di essere registrati in base alle loro caratteristiche razziali;
  • legge che proibiva alle persone di diverse razze di entrare in alcune aree urbane;
  • legge che proibiva a persone di colore diverso di utilizzare le stesse strutture pubbliche (fontane, sale d’attesa, marciapiedi, etc.);
  • legge che prevedeva una serie di provvedimenti tutti tesi a rendere più difficile per i neri l’accesso all’istruzione;
  • legge che sanciva la discriminazione razziale in ambito lavorativo;
  • legge che istituiva i bantustan, ghetti per la popolazione nera, nominalmente indipendenti ma in realtà sottoposti al controllo del governo sudafricano;
  • legge che privava della cittadinanza sudafricana e dei diritti a essa connessi gli abitanti dei bantustan;
  • legge che costringeva la popolazione nera a poter frequentare i quartieri della gente “bianca” solo con degli speciali passaporti

Il viaggio nel museo prosegue con le immagini e i video dell’entrata in scena di un giovane Nelson Mandela, la sua storia, la sua battaglia, gli anni di carcerazione – ben 27 anni. Immagini di torture, di scontri ed umiliazioni razziali, sino ad arrivare in una stanza in cui vi sono 131 cappi appesi, come il numero delle persone giustiziate per ribellione.  L’11 febbraio 1990 Mandela fu liberato, 4 anni dopo venne eletto Presidente. Anni e anni di discriminazioni non si cancellano di colpo ma il sogno della rainbow nation c’è e si percepisce, ci sono 11 lingue riconosciute e legislazioni in ambito di uguaglianza sono tra le migliori al mondo.

Bye bye Joburg

Johannesburg è come il primo appuntamento con una persona nuova; all’inizio, magari, questa persona non ti sembra interessante e vorresti che tutto passi il più velocemente possibile ma poi,  pian piano che la conoscenza prosegue, ti rendi conto di quanto sia interessante la persona che hai di fronte.

Così è Joburg, arrivi e ti sembra bruttarella e insignificante, pensi che potresti essere a Cape Town che è più bella ma poi scopri il suo passato, le sue differenze e quanto tutto questo sia interessante e stimolanti e chi se ne frega se non ha panorami mozzafiato e centri storici artistici. Joburg ha una sua personalità che pian piano emerge e sai già che quando te ne andrai ti mancherà. La bellezza di questa città sta nelle differenze e come ho già detto nella sua energia, non è una città facile, può essere pericolosa, ma altrettanto accogliente, moderna ma allo stesso tempo arretrata, è ricca ma estremamente povera. E’ tutto e il contrario di tutto. E’ la città che non ha vie di mezzo, esiste solo il bianco o il nero e perdonatemi il gioco di parole, che no è poi tanto un gioco.

La vita sociale viene vissuta in gran parte all’interno dei centri commerciali, è lì che ci sono i locali alla moda, i ristoranti più prestigiosi, è lì che ci sono gli avvenimenti e gli eventi. I centri commerciali sudafricani sono le piazze europee, il luogo in cui ci s’incontra, non è solo il luogo in cui si acquista. Non c’è da stupirsi se Mandela Square, con la sua statua alta 6 metr,i è la piazza di un centro commerciale. I centri commerciali sono i luoghi più accessibili in assoluto per le rotelle, si parcheggia agevolmente, si prende un ascensore ed hai tutto comodamente a disposizione, se le rotelle potessero ridere lì scoppierebbero.

Le mie rotelle ridono molto anche tra le vie di 44 Stanley, un centro commerciale, meno plastificato ed artificiale. Questo centro commerciale sorge infatti in un complesso di edifici industriali degli anni ’30 che sono stati ristrutturati e rimessi a muovo. Con l’aggiunta  di viali alberati, piazzette, fontane e passeggi tra negozi di tendenza e ristoranti pare di essere in Europa. L’accessibilità è paragonabile a quella che trovo in Italia; dopo i mondiali di calcio del 2010 si è fatto molto per sistemare ed adeguare. Noi giriamo con un pulmino di Endeavour Safaris, un operatore turistico specializzato in viaggi per disabili (e non solo) che ci facilita il tutto di molto.

Le diversità di questa città sono ben rappresentate da chi ci ha accompagnato e guidato per la città ovvero da Mirka, la nostra guida e Gilbert il driver. Mirka è nata in Italia, poi è immigrata in Argentina, dove ha sposato un italiano. Negli anni ’60 è venuta a vivere in Sudafrica, lei donna bianca ed europea ha dovuto adeguarsi all’apartheid. Quando le chiedo come ha vissuto quel periodo ripete solamente che è stato uno shock – “un grande shock ma se si decide di vivere in un paese bisogna adeguarsi alle regole di quel paese e lei si è adeguata”. E’ una donna vitale, a tratti pare di avere a che fare con un generale, è divertente come tenta di far saltare i ritmi lenti dell’Africa ma è una battaglia persa. Ha visto cambiare questa città ed è la sua città, in Italia non ha più legami così come in Argentina, appena può parla in spagnolo con Guillermo è un modo per ricordare il paese in cui è crescita ma per il resto è e si sente sudafricana. Gilbert è un ragazzo di 28 anni, abita a Soweto e vuole fare la guida turistica, ci dice subito che è un Xhosa come Mandela, sono il gruppo etnico più numeroso in Sudafrica dopo gli Zulu. Gilbert si diverte a spiegarci come pronunciano la C e la X, per me è solo un modo strano di scoccare la lingua, non ce la posso fare a fare quel strano “click” con la lingua. Manda baci alle ragazze che attraversano la strada, ha i suoi ritmi, quelli lenti e tranquilli di questa terra, si preoccupa di un problema quando arriva, prima non ci pensa proprio. Appena si ferma si attacca a whatsapp, deve aver conquistato una tedesca e non solo, non vuole andarsene dal suo paese anzi quando ne parla è orgoglioso, mi rendo conto che noi italiani non lo siamo molto quando parliamo del nostro anche se lo amiamo moltissimo. Gilebert e Mirka sono uno il contrario dell’altro, per età, per razza e per stili di vita; mi verrebbe da pensare che sono l’esempio di quello che è ora il Sudafrica, in cui i bianchi stentano a lasciare il passo ai neri e i neri sono un po’ troppo presi dall’entusiasmo e dai loro ritmi e certe volte fanno un po’ di casino. Mi diverto a vedere come Mirka sgrida Gilbert, come lui fa l’offeso ma poi gli passa e sorrido quando li vedo che fanno comunella e si divertano a farsi selfie insieme. Anche in questo caso le diversità alla fine si annientano davanti al rispetto dell’uno e dell’altro, entrambi così diversi ed entrambi così sudafricani.

Il grande albero – Mthimkhulu

Gilbert fatica non poco a trovare il centro per disabili Mthimkhulu, certo non rientra nelle attrazioni turistiche del luogo e non credo che ci rientrerà nel futuro, si affida al navigatore ma il navigatore si affida al caso e giriamo per un po’ in tondo. Mirka, la guida, suggerisce di usare le sue mappe cartacee ed inizia un dibattito: “è meglio il GPS oppure le cartine ?!”. In attesa che il mondo dia una risposta, vince il metodo che personalmente amo di più “chiediamo al primo che passa”. Così, girando per Soweto, chiedendo un po’ di là e un po’ di qua, arriviamo di fronte ad una casetta: il centro per disabili che cercavamo.

Non so molto del centro per bambini disabili che stiamo andando a visitare, come sempre del resto, non mi informo molto e questo non è sempre un bene; preferisco godermi l’impressione del momento, ho questa idea che informarmi prima condizionerebbe il mio giudizio o il mio sentire, non potrei mai fare il giornalista d’inchiesta, non potrei mai fare il giornalista.

Mthimkhulu in Zulu significa “grande albero”, da protezione e sicurezza a coloro che vi si riparano sotto. Leah è l’albero di questo centro, è “the mother” – la madre. Nel 1990 Leah e Sam hanno avuto una bimba, Miriam, con una grave disabilità mentale, hanno cercato da subito di darle le stesse opportunità degli altri figli ma era difficile, nella zona di Soweto non vi erano servizi per disabili e se c’erano avevano prezzi molto alti. Il desiderio di dare un’opportunità a Miriam ha fatto nascere il centro, era il 1999. Il Centro ora è un organizzazione non-profit, ha l’obiettivo di favorire, promuovere ed incoraggiare i servizi per bambini disabili. Il suo funzionamento è monitorato in via continuativa dal Dipartimento Gauteng della Salute e si occupa di 25 bambini disabili mentali

“I bambini hanno, per la maggior parte dei casi, paralisi cerebrali dovuti a problemi sorti durante il parto oppure la madre aveva/ha problemi di alcolismo, tossicodipendenza o di mal nutrizione, sono spesso abbandonati dalla famiglia di origine e considerati come un peso per la società, vengono trattati separatamente dagli altri bambini, crescono credendo che la loro disabilità è una maledizione, di conseguenza percepiscono se stessi come inutili. Più del 80% dei bambini neri con disabilità vive in condizioni di estrema povertà in ambienti inospitali ed hanno scarso accesso ad adeguate strutture sanitarie” – questo è quello che ci spiga Leah.

Nel centro gravitano circa 13 operatori che tentano di rafforzare i loro piccoli corpi, aiutandoli a vivere con la loro disabilità, per esempio li incoraggiano a stare a tavola e a rendersi il più autonomi possibili, in modo che il padre e la madre possano andare a lavorare e gli altri figli non abbiano la responsabilità di prendersi cura del fratello a tempo pieno. Mthimkhulu vive grazie al sostegno dei volontari e dei benefattori, il Governo contribuisce con la copertura dei costi relativi al cibo e ai medicinali. Tutto il resto (stipendi degli operatori, pannolini, spese di gestione) sono a carico della provvidenza.

La casa dove sorge il centro, è stata donata da un benefattore olandese, ha due stanze (che fungono da zona giorno) in cui i bambini, con le carrozzine e con i seggiolini, sono disposti in maniera ordinata contro le pareti. Tutti in fila, uno affianco all’altro per tutti i giorni, per tutti i mesi, per tutti gli anni. Non ci sono mobili, c’è poco o nulla. Il minimo indispensabile. Poi c’è una cucina piccolina e una stanza in cui altri bimbi dormono sui dei materassini messi a terra. Tutto è estremamente pulito, spoglio e semplice. Pochi giochi, pochi ausili, il pavimento è ricoperto da moquette in modo che chi non cammina può comunque gironzolare.

Mi sorprendo della pulizia e dell’assenza di odori sgradevoli, so quanto questo comporti lavoro ed attenzione. Le operatrici e le volontarie danno attenzione a tutti, sono così materne, alcuni bambini iniziano a piangere, ad urlare vengono presi in braccio e portati fuori in modo che gli altri non si spaventino, ad un certo punto iniziano a cantare, è un bel canto allegro e gioioso, battiamo le mani tutti insieme, facciamo le foto di gruppo.

Fatico a levarmi questo imbarazzo, non riesco a togliermi di dosso questa sensazione che sono bimbi e non cuccioli. Non riesco a togliermi la sensazione di essere di troppo e di sapere che qualsiasi cosa dirò, farò non riuscirò ad aiutarli. Ci ringraziano per essere venuti a trovarli e noi continuiamo a ringraziali per il lavoro che fanno e per la capacità di non arrendersi. In mezzo a tutti c’è una bimba, con una tutina viola, si chiama Sarah, è molto allegra e curiosa, si appoggia spesso a me, mi stringe un braccio con le sue manine, mi guarda con i suoi occhini e resta lì a guardarmi.

Leah ci racconta delle difficoltà che hanno nel gestire il centro, dell’esigenza di avere dei contributi, del fatto che non hanno contributi governativi, che il suo sogno sarebbe quello che il centro da diurno diventi residenziale, che tre bambini se li porta a casa anche di notte in quanto la loro famiglia li ha abbandonati.

Quando parto e salgo sul furgone, ammirano la pedana, mi rendo conto di quanto potrebbe essergli utile nel quotidiano. E’ inutile che stia a dire che siamo fortunati, che dovremmo apprezzare quello che abbiamo, che dovremmo smettere di lamentarci e tutte ste cazzate, ovvero quelle belle frasi che diciamo a noi stessi per metterci la coscienza a posto. Sappiamo tutti molto bene che il dolore di quel pugno nello stomaco passerà, anche molto velocemente, ci dimentichiamo tutto molto presto.

Torno nel mio bell’albergo, nella mia stanza che è grande quanto metà del centro, mi lamenterò del fatto che poteva essere ancora più accessibile ed archivierò le ore appena trascorse come un esperienza arricchente, che fa molto uomo vissuto. … alla tv, in questi giorni, continuano a ripetere una frase di Papa Francesco: “La globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere”, forse l’unica cosa che potevo fare era prendere la manina di Sarah e piangere, lei mi avrebbe consolato, invece sono così presuntuoso di pensare di essere io in grado di consolare lei.

Cape Town: the mother city

Arriviamo all’aeroporto di Cape Town in perfetto orario. Come sempre vengo aiutato dall’assistenza “speciale”; i rotellati e coloro che hanno problemi di mobilità vengono assistiti durante l’imbarco o lo sbarco dall’aereo. Questo avviene in tutti gli aeroporti del mondo ma a Cape Town mi stupiscono perché, oltre ad essere estremamente gentili e solerti, i ragazzi si presentano, spiegano come avverrà il servizio, ci offrano da bere e delle salviette rinfrescanti, infine mi viene dato un bigliettino da visita con un indirizzo email al quale inviare  la nostra “customer satisfaction” e l’indirizzo web in cui trovare tutte le indicazioni dei servi offerti. In anni di volo e di assistenze varie non mi era mai capitato un servizio e un attenzione così curata. Non mi resta che dire, benvenuti a Cape Town !

 Cape Town è chiamata “The Mother City” perché è da qua che ebbe inizio la storia del Sudafrica. E’ proprio da sud verso nord che ebbe inizio la colonizzazione, e Cape Town fu il primo avamposto dei coloni. A Cape Tow, poi, s’incontrano due oceani quello Indiano e quello Atlantico.

Appena sbarcati incontriamo Giacomo che sarà la nostra guida. Non ci vuole un genio per comprendere che Giacomo è fiorentino, la sua parlata non lascia dubbi. Giacomo si è trasferito da pochi anni in Sudafrica attratto da una vita con ritmi più lenti e la possibilità di vivere a stretto contatto con la natura e con se stessi. “In Italia si vive per lavorare a Cape Town si lavora per vivere. In Italia si parla sempre di problemi, non va mai bene nulla, è un continuo lamentarsi. Qua si può abitare in luoghi incantevoli a prezzi accessibili, il contatto con la natura e la possibilità di viverla quotidianamente sono state le motivazioni principali che mi hanno spinto a scegliere questo paese, non è stata una scelta semplice ma alla fine non me ne pento”. Queste sono le prime impressioni che abbiamo e non saranno smentite durante la nostra permanenza anzi verranno accentuate.

Saliamo sul pulmino con la pedana di Endeavour Safaris, è l’ora del tramonto e ci dirigiamo verso ovest per ammirarlo dalle spiagge. La Table Mountain, segno di riconoscimento di Cape Town, spicca da qualunque parte della città ti trovi, è sempre lì, presente e imponente, con le nuvole che molte volte l’avvolgano e pare che formino delle cascate, in alcuni momenti sembra la pentola magica di un mago che emana fumi dalle forme più strane. Table Mountain pare che sia lì per proteggerti, per darti una mano se ti perdi, basta darle uno sguardo per capire dove sei e sarà lei ad aiutarti ad orientarti. Arriviamo in spiaggia mentre il sole sta scomparendo. Di fronte ad un tramonto e al mare ognuno di noi si lascia andare ai propri pensieri ed alle proprie emozioni. Emergono ricordi e desideri futuri, è un momento di meditazione, una preghiera per se stessi e per le persone a cui vogliamo bene è inutile spendere parole è solamente da vivere.

Capo di Buona Speranza

Mi sveglio nell’immensa camera dell’Orange African Pride Hotel di Cape Town. La camera è grande quasi come il mio appartamento e non sto esagerando visto che è di 38 mq- E’ uno di quei luoghi in cui vorresti rimanerci per giorni interi. Mentre sono in bagno rifletto su uno dei dubbi che mi attanaglia da anni: “Come mai gli anglosassoni non hanno ancora scoperto la comodità dei miscelatori? Possibile che qualcuno non gli ha spiegato che avere due rubinetti, uno per l’acqua calda e l’altro per la fredda, è scomodo? Che non c’è nulla di piacevole nel restare congelati o ustionati? E soprattutto, perché esportano nel mondo il non uso del miscelatore?”. Dopo aver riflettuto sufficientemente su questo dilemma, e non aver trovato anche questa volta una risposta, perlustro l’albergo dal design avventuristico, un mix tra una navicella spaziale e il paese delle meraviglie di Alice.

Ma è giunto il momento di lasciare il nostro albergo per dirigerci verso sud anzi verso il punto più a sud. Iniziamo a scendere lunga la costa e i paesaggi sono di una bellezza incredibile; spiagge sabbiose, scogliere a strapiombo, rocce nere e rosse. Arriviamo a Simon’s Town, piccola località balneare sulla costa orientale e sede di una base militare. “L’unica seccatura sono i rumori degli spari dei cannoni che spesso e volentieri guastano l’armonia del posto” – ci dice Giacomo che vive in questa zona e ci ricorda (mentre noi rosichiamo) quanto sia bello svegliarsi con l’Oceano di fronte e poterlo ammirare quotidianamente. Inizio a fantasticare, come al solito, su come sarebbe bello vivere qua, avere come vicini i pinguini e i babbuini, gustarsi la luce che cambia in maniera differente a seconda delle stagioni. Fantastico vite improbabili in ogni luogo che vado, devo ancora capire se è un pregio oppure un difetto. Altro dilemma. Osservo come le abitazioni sono state costruite in modo che la natura entri nelle case in modo da divenire parte integrante. La luce, il mare, il vento sono la componente principale per chi decide di venire a vivere qua. Non sono luoghi sperduti e nemmeno isolati, le comodità della vita moderna sono ben presenti ma si coniugano e si fondano con l’ambiente.

Gli abitanti sono per la maggior parte bianchi e benestanti, le cape flats sono ben distanti e si avverte la presenza di un gran numero di radical chic e la filosofia new age pare aver contagiato tutti, molti sono stanchi dalla vita frenetica delle città e del mondo occidentale e tentano di ritrovarsi, alcune volte filosofeggiando a vanvera altre trovando la tanto ambita serenità. A Simon’s Town vi è Boulders Beach, la famosa spiaggia in cui si è stabilita una colonia di pinguini africani. Tutta l’aerea è interamente accessibile alle carrozzine, infatti vi è una passarella in legno che affianca la spiaggia (non si vede uno scalino nemmeno a pagarlo) e si possono osservare i pinguini che goffamente passeggiano e si tuffano in mare. E’ inutile dire che la visione di questi animaletti provoca un’incontentabile tenerezza.

Proseguendo verso sud si entra nella zona della Cape of Good Hope Nature Reserve, una riserva naturale protetta dove è facile trovare struzzi che passeggiano tranquillamente per la lunga strada in cui tutto sembra senza fine e inizio.Si trovano moltissimi cartelli in cui si proibisce di dare da mangiare ai babbuini ma loro sanno come abbindolare l’uomo, entrano tranquillamente nelle auto, cercano nelle borse oppure flirtano con i turisti in modo che prima o poi qualcosa di commestibile arrivi.

Andiamo a mangiare al “Two Oceans” dove ammiriamo il paesaggio del Capo di Buona Speranze dalle immense vetrate mentre mangiamo dell’ottimo sushi.

Il Capo di Buona Speranza, oppure Capo Tempestoso, come lo chiamò Bartolomeo Diaz per via della violenza delle sue acque, luogo estremamente difficoltoso da superare prima di arrivare alle Indie, nell’immaginario di molti è considerato il punto più a sud dell’Africa e dove si uniscono l’Oceano Indiano e quello Atlantico.  In realtà entrambi i primati sono di Capo Agulhas ma, Capo di Buona Speranza resta turisticamente più interessante da visitare. Insomma, Capo di Buona Speranza è la Santa Maria di Leuca africana.

E’ una grande emozione arrivare in questo luogo; ricordo che da bambino, guardando il mappamondo e leggendo in fondo in fondo al mondo la scritta “Cape of Good Hope”, pensavo a quanto lontano era questo posto, provavo ad immaginare a come potevo arrivarci: avrei dovuto attraversare tutta l’Italia e poi tutta, ma proprio tutta, l’Africa. Avevo la stessa sensazione che ora provo quando guardo il cielo. Tutto mi sembra così immenso e mi gira la testa ad immaginare cose c’è dopo quella stella e dopo quella a quell’altra ancora, tutto è così grande. Ora sono qua, in fondo all’Africa, dove c’è il cartello che indica che ci sono, dove c’è un vento che potrebbe farci volare via e mi sembra impossibile esserci arrivato, con le mie rotelle, in fondo in fondo al mappando ma all’inizio di nuovi mondi e nuove mete.

Rotellando per Cape Town

Passeggiare per Cape Town per un rotellato non è proprio facilissimo, raramente si trovano scivoli per scendere dai marciapiedi. A pochi passi dall’albergo, si trova Church Square. In quaesta piazza, sorgeva l’albero degli schiavi, sotto il quale furono venduti per l’appunto gli schiavi sino alla fine dell’800. Quanti danni ha combinato questo uomo bianco! Tutta la zona è pedonale e se alla sera non è particolarmente vivace, di giorno si anima di bancarelle e venditori ambulanti.

Una zona particolarmente accessibile, anche perché molto turistica, è il Waterfront, la zona del porto antico, ora piena di ristoranti, bar, negozi e centri commerciali, il regno per lo shopping ed estremamente attraente per i turisti. Sono molte le chiese che si trovano nelle strade di Cape Town ed è curioso (in maniera positiva) trovare, nelle chiese, materiale informativo che sensibilizza all’utilizzo di preservativi per evitare il diffondersi dell’AIDS. Per fortuna la Chiesa inizia a comprendere che la prioritaria è tentare di salvare delle vite anziché ostinarsi a predicare comportamenti puritani. Il Sudafrica è uno dei paesi con il più alto tasso di sieropositivi e malati di AIDS, il contagio è diventato un emergenza sociale, maggiore della povertà e della criminalità.

La particolarità di Cape Town è quella di avere quartieri e zone particolarmente differenti l’uno dall’altra, si passa dalla zona storica di Church Square, a quella moderna del Waterfront ,al coloratissimo Bo Kaap, quartiere malese, alle pendici del Signal Hill. Certo è un po’ in salita e non proprio comodissimo per le rotelle, se non tengo i freni rischio di ritrovarmi direttamente al polo sud. Dalla passeggiata nel Bo Kaap è l’umore a trarne maggiormente vantaggio, infatti i colori delle abitazioni sono talmente sgargianti e vivaci che non puoi fare a meno di sentirti elettrizzato tra queste vie. Chi ci abita è per lo più di religione musulmana, arrivati come schiavi dalla Malesia, India ed Indonesia in quanto gli olandesi andarono a “prenderli” visto che erano in carenza di manodopera. L’incrocio tra bianchi, orientali e neri ha dato origine ai “coloured” che oggi sono la maggior parte degli abitanti di Cape Town.

L’Ente del Turismo Sudafricano ha organizzato un tour con Andulela, un tour operator che ha come mission quella del turismo responsabile, il cui concetto è quello di mantenere un equilibrio tra le diverse esigenze del viaggiatore e quelli della regione visitata, contribuendo alla conservazione degli ambienti naturali del Sudafrica e allo sviluppo delle comunità locali di Città del Capo. Il tour che facciamo è il Safari Cape Jazz , alla scoperta di questo genere di jazz che viene eseguito a Cape Town ed ha la caratteristica che gli strumenti (ottoni, banjo, chitarre e strumenti a percussione) siano suonati durante le street parades. Il Cape Jazz ha influenze dal jazz americano ed è stato contaminato dal blues e dai canti popolari dei creoli discendenti dalle ex comunità di schiavi che vivevano nel Western Cape. Il tour inizia a casa di Miriam.  Miriam e suo marito ci preparano la cena, dandoci anche una piccola lezione culinaria, purtroppo vista la mia poca attitudine verso la cucina, ricordo ben poco dei consigli di Miriam, in compenso mi sono rimasti impressi i sapori e gli aromi. A fine cena inizia un concerto di jazz solamente per noi, nel loro salotto di casa e l’atmosfera si scalda e ci godiamo questo spettacolo molto privato. Il tour musicale poi prosegue al The Cripta Jazz Restaurant, un ristorante all’interno della St. Georges Cathedral.

Cape Town terra promessa 

Essere a Cape Town di sabato mattina e non andare all’Old Biscuit Mill è un peccato turistico che non si deve fare, pena la perdita olfattiva. L’antico mulino si trova all’interno del quartiere di Woodstock, persone talentuose hanno deciso di riunirsi ed hanno aperto negozi in cui possono esprimere al meglio le proprie doti artistiche (pittura, scultura, design). Appena ci si immerge all’interno del market è la parte culinaria quella che attira l’attenzione. Fare colazione al suo interno è un’esperienza che non bisogna lasciarsi sfuggire; si può assaporare davvero di tutti, dai dolcetti alle torte salate, dalla frutta alle torte casalinghe. Siamo in crisi d’astinenza da caffeina, da buon italiano continuo a pensare che il caffè è buono solo a casa mia, quindi evito di berlo in altri paesi ma visto che ci viene indicato questo bar come uno dei luoghi migliori per un ottimo espresso ci proviamo. Assaporo l’aroma e blahhh! È salatissimo ! Ne richiedo un altro nella speranza che ci sia stato un errore, ma nulla è ancora peggio, con la differenza che sono costretto a berlo facendo finta anche di gustarlo perché il proprietario ha deciso di spiegarmi in maniera dettagliata la tostatura e la preparazione di questo caffe che arriva da non so più dove, assicurandomi che il sapore salato in realtà è ambrato. Morale della favola, altra tazzina di sale da ingurgitare e con la convinzione ora fattasi legge che non devo bere caffe fuori dall’Italia. La maggior parte dei venditori all’interno del market sono europei che hanno deciso di cambiare la loro vita mettendo a frutto un loro talento, che nel loro paese faticava a trovare sbocchi. La possibilità di poter vendere le proprie creazioni fa si che si respiri tanta energia positiva, sono molti i visi sereni e soddisfatti tra i venditori.

Usciamo dall’ Old Biscuit Mill per farci un giro per le vie di Woodstock. Anche in questo caso ci viene segnalato come luogo in cui fare attenzione, potrebbe essere pericoloso, ma anche in questo caso non trovo sguardi o atteggiamenti ostili o pericolosi. Accade molto spesso che la “carrozzina” sia un pass preferenziale nei luoghi ritenuti “rischiosi”, per uno strano meccanismo psicologico si instaura una complicità tra “pari” ovvero tra “poveretti”, non è facile da spiegare ma lo svantaggio di essere in carrozzina è spesso visto paritario da chi si sente svantaggiato per altre motivazioni, in questo caso di povertà. Insomma tra “poveretti” siamo tutti compari, inoltre credo che ci sia un codice d’onore per cui ad un rotellato non si deve fare del male, insomma è già sfigato perché prendersela con i più deboli.

Rotellando per le vie incontriamo Rose, una bella ragazza che sorseggia tè nel suo atrio di casa, facciamo immediatamente conoscenza, appena vede le macchine fotografiche si mette in posa, la dura vita delle belle! Proseguiamo il giro e pare di essere in una galleria d’arte, talmente sono tanti e belli i graffiti che sono dipinti sui muri. Molte delle case sono fatiscenti, ma i dipinti li rendono vitali. Ci sono bimbi che giocano tra pezzi di verde e immondizia, ci sono spacciatori agli angoli delle case e donne velate con borse della spesa che fanno le commissioni. Un gruppo di uomini beve e fuma stando seduti su divani lerci all’esterno di una stamberga, ci guardano e ci osservano e alla fine il capo clan decide che ci vuole indicare la via con i murales migliori (secondo lui), è un modo per dirci che possiamo girare tranquillamente (o per lo meno lo credo), nonostante sia mattino presto gli aliti e gli sguardi sono belli carichi d’alcol. Già, l’alcol, altro problema che si fatica a sconfiggere, e mi accorgo come nel giro di pochi chilometri si passa dai sogni, forse, realizzati di Old Biscuit Mill ai sogni manco sognati delle vie di Woodstock. Cape Town è anche questo essere terra promessa per molti e terra di nessuno per altri.

Piccoli sogni si avverano

A Cape Town un mio piccolo sogno si è avverato. Da sempre mi chiedo quali possono essere le sensazioni che si provano a guidare una moto, sfrecciare come Valentino Rossi, inclinando la moto sino al punto che le ginocchia tocchino il suolo, sentire i capelli al vento (certo bisognerebbe averli ma nel sogno si possono immaginarli lunghi e ricci, se non si sogna bene che sogni sono). Andare in moto per me è un tantino complicato, soprattutto tenermi stabile sulla moto, pertanto l’ho rimodulato in un sogno un pochino più semplice: andare in sidecar. Da bambino, durante i famigerati anni ’80, veniva trasmessa una spassosissima serie televisiva “George e Mildred”, i protagonisti (marito e moglie) andavano a fare gite in sidecar.  L’idea di poterlo fare mi diverte molto anche se sono consapevole che devo prendere il posto di Mildred. Cosa bisogna fare per fare un giro in moto.

Quando l’Ente del Turismo Sudafricano ha proposto di fare un giro nelle Winelands in sidecar, ho accolto la notizia con un bel “ieppa ieppa”. Fuori dalla hall dell’ African Pride Hotel arrivano Tim e William di Cape Sidecars Adverntures; con le loro motociclette e sidecar  ci porteranno a fare un tuor dalla durata di circa tre ore per le winelands. Felice come un bambinetto al suo primo giro in giostra, metto il casco, fazzoletto e occhialini (fa tanto figo e non impegna) e pronti a partire verso la Table Mountain. E’ una bellissima sensazione ammirare il panorama da questa prospettiva, potrei stare comodamente seduto dentro a questo aggeggio per ore, certo ci sono momenti in cui ti chiedi se il sidecar non si sganci oppure ti domandi se Tim ha una completa visuale del mezzo e non rischi di essere grattato verso un muro.

Saliamo sempre più su, ammiriamo Cape Town dall’alto e mi rendo nuovamente conto di quanto sia bella questa città immersa tra il blu dell’Oceano, le lunghe spiagge sabbiose, le rocce rosse e il verde della Table Mountain. Città che raccoglie proprio tutto. Tanta roba, troppa roba. Dai belvedere partono i parapendii, altro modo affascinante di guardare la città, soffro di vertigini, fatico a sporgermi dal balcone di casa mia che è piano terreno pertanto non è e mai sarà mia intenzione provare questa esperienza. Ci dirigiamo verso le winelands che trovano a circa 40 km da Cape Town, regione rinomata per i vini.

Si arriva in un enorme altopiano circondato da catene montuose di altezza ragguardevole (oltre i 1500 metri). Altro cambio di paesaggio in questo Sudafrica pieno di aspettative. Le cittadine sono tipicamente europee, in particolare Stellenbosch e Franschhoek , quest’ultima famosa per i suoi innumerevoli ristoranti francesi, fondate la prima dai coloni olandesi e la seconda dagli ugonotti francesi. Percorrendo la wine route l’attività principale è ovviamente degustare vini, si è circondati da enormi aziende vinicole, ogni azienda ha una propria storia, molte delle quali affascinanti.

Arriviamo con i sidecar a Boschendal, una delle più belle proprietà al mondo, fondata dagli ugonotti francesi 1685. L’azienda agricola si estende su 5500 acri coperti da  vigneti, frutteti e fattorie con alle spalle le magnifiche montagne di Simonsberg. Percorriamo l’ingresso alberato e ci sembra di entrare in un altro mondo, un tuffo nel passato, l’azienda è in architettura Cape Dutch (olandese del Capo), bianca con i tetti di paglia o in stile vittoriano. Mangiamo dell’ottima carne e nonostante l’abbiocco ci dirigiamo verso Steenberg, la più antic fattoria di Città del Capo, che deve il suo nome, “Montagna di Pietra”, vicina montagna nei pressi della quale è edificata. La casa padronale e gli altri edifici della fattoria sono stati dichiarati monumento nazionale. Il podere è stato ristrutturato ed ora è un albergo di lusso, con un campo da golf e un ristorante. Steenberg è stata fondata nel 1662 da Catherina Ustings Ras che da Lubecca si avventurò verso il Sudafrica, Catherine è stata una delle figure più audaci della storia del Capo. Si sposò varie volte ed altrettante restò vedova (un marito rimase ucciso in una tempesta, un altro da un leone, un altro schiacciato da un elefante). Lei morì a 82 ed ora la fattoria è un luogo incantevole dove sorseggiare e degustare vini seduti su comodissimi divani bianchi all’aperto ammirando il tramonto che scompare tra i verdi vigneti oppure davanti a caminetti scoppiettanti. E’ bello essere qua con amici nuovi, conosciuti in questo splendido paese, dove ogni giorni puoi ammirare paesaggi diversi, rilassarsi e svuotare la mente, anche perché il vino riesce a farti sentire, davvero tanto leggero.

Mpumalanga, tra cascate e canyon

Da Cape Town voliamo a Nelspruit la capitale della regione di Mpumalanga, dove ritroviamo Mirca e Gilbert e il pulmino con la pedana della Endeavour Safari. Mpumalanga è la regione a nord est del Sudafrica, al confine con Mozambico e Botswana. In questa prima giornata passeremo gran parte del nostro tempo in auto ad ammirare i continui cambiamenti di paesaggio. I paesaggi passano dal colore acre della terra bruciata, al verde dei prati, questa è una zona in cui tutto quello che viene coltivato cresce e lo fa tre volte meglio che in altri luoghi per questo viene chiamato l’orto del Sudafrica. Vi sono molti eucalipti piantati dai primi coloni per sostenere le gallerie delle miniere d’oro e troviamo molte coltivazioni di agrumi, frutta secca e canna da zucchero. Sono i colori di molti fiori che non conosco a sorprendermi, prima fra tutti il rosso scintillante della stella di Natale, per la prima volta in vita mia vedo un albero di questo fiore (originario del Messico ma molto diffuso in questa zona), manco sapevo che era un albero pensavo fosse un fiore e che nascesse direttamente dentro ad un vasetto con un fiocco attaccato, così come non sapevo che il geranio (fiori che hanno accompagnato la mia infanzia in quanto ornavano i balconi della casa in cui vivevo vicino al Monte Rosa ed erano l’orgoglio di mia mamma e guai a chi glieli toccava) è originario del Capo, credevo fosse un fiore montano quasi come la stella alpina, da qua si può dedurre la mia laurea in botanica.

Si sale e si scende per montagne di questa regione, in alcuni momenti mi pare di essere in Trentino Alto Adige, tanto è verde e pieno di abeti e conifere altissime, non sono piante autoctone ma piantate dai bianchi per la produzione di carta e legno per mobili. Km e km di conifere che vengono piantati, tagliati e poi ripiantati in maniera precisa ed industriale. Si vedono poi piantagioni di banane, per ricordarci che siamo comunque in Africa. Vi sono diverse cascate nel canyon le famose Sabie Falls, molte hanno il nome di capitali europee: Lisbona, Berlino, Amsterdam un tempo erano i luoghi in cui i pionieri venivano a cercare le pepite d’oro. La cascata che andiamo a visitare ha la particolarità di avere un percorso totalmente accessibile, si passa attraverso un sentiero di liane ed alberi e il clima è molto tropicale, per un nano secondo mi sento un vero adventure man ma poi ritorno alla realtà di essere sempre un rotex. E’ bello starsene sul ponte del ruscello ed ascoltare la caduta dell’acqua, guardare gli uccelli che si abbeverano, è la bellezza della natura e dei suoi spettacoli perpetui ma sempre nuovi.

Allora di pranzo troviamo un ristorante/pizzeria italiano, è l’unico aperto e quando entri pare di essere a italianland, vi sono tutte le icone turistiche, musicali e cinematografiche dell’Italia all’estero. Tovaglie con l’immagine di Sofia Loren e Pavarotti, il forno fatto come l’Arena di Verona, sottofondo musicale che varia da Raffaella Carrà ad Albano, quadri della Dolce Vita, menu con i classici cibi italiani (tortellini, lasagna, pizza, tiramisù) il tutto servito da signorine di colore che dell’Italia forse sanno solamente che è a forma di stivale. E’ divertente mangiare in questo luogo, un po’ meno capire per l’ennesima volta come viene visto e ricordato il nostro Paese, più per il passato che per il presente, ma forse è meglio così.

Ci dirigiamo per la notte verso Hippo Hollow, arriviamo che è buio e partiremo al mattino presto pertanto non potremo goderci la bellezza del posto, un albergo con chalet sul fiume in cui vivono alcuni ippopotami, non li vediamo ma sentiamo la loro voce nella notte, iniziamo così a sentire i primi rumori della savana. Il giorno successivo lo concentriamo alla visita del Blyde River Canyon, che è considerato il terzo Canyon più grande del mondo. Il panorama muta nuovamente, tutto diventa più arido, ci alziamo di quota, raggiungiamo i 1.500 metri di altitudine, ma lo spettacolo è incantevole. I punti panoramici sono facilmente raggiungibili con la carrozzina, infatti vi sono i sentieri asfaltatati in cui si può rotellare tranquillamente. Ci dirigiamo alla God’s Window, se ci siamo comportati male Dio deciderà di chiuderla e metterà le nuvole in modo che non si veda nulla. A quanto pare noi ci siamo comportati molto bene, la finestra è apertissima e vediamo con nitidezza tutta la vallata e le “tre capanne”, cosi vengono chiamate, per l’assomiglianza, le vette rocciose di fronte a noi.

Safari in Sudafrica

E’ da quando siamo partiti che il pensiero del safari ci frulla in testa, più che un pensiero è un’agitazione, attendiamo con impazienza di andare nella savana. Io ed Alessandro facciamo le domande più disperate “Riusciremo a vedere il leone bianco e l’ippopotamo blu?”, “Prenderemo la febbre gialla?”, “Verremmo assaliti dai Boscimani?”, tutti quesiti che ci danno quel tocco di adventure e fa tanto grande esploratore. Le risposte che ci arrivano da chi ha fatto dei safari è unanime: “Bellissimo!!” e a tutti s’illuminano gli occhi.

Dopo il tour nel Blyde Canyon , dopo aver goduto di panorami che sembrano uscire da passate ere geologiche, ci avviamo verso Kapama Game Riserve, una riserva privata di 13.000 ettari di savana e foresta fluviale. Non saremo all’interno del famosissimo Kruger Park che invece si trova un po’ più ad est ma vedremo comunque i “big five” ovvero i 5 animali più grossi della savana : l’elefante, il rinoceronte, il leone, il leopardo e il bufalo. L’espressione ha origine nella cultura del safari inteso come battuta di caccia e si riferiva ai cinque animali più pericolosi da cacciare e, di conseguenza, ai cinque trofei più ambiti dai cacciatori (Big Five Game).

Grazie a Dio non andremo ne a caccia ne a cercare trofei che non siano fotografici. Quando arrivi a Kapama la prima parola che ti viene da dire è: “Ah però… !!”. E’ un posto incantevole, perfettamente immerso nella natura, curato pulito e già sai da subito che ti spiacerà lasciarlo. Appena entro nella mia camera resto affascinato dalla splendida vista sulla savana, la vasca da bagno ha come parete la savana, il balcone è nella savana, insomma sono dentro alla savana e animali come impala, giraffe e bufali passeggiano davanti alla finestra. Per me è tutto nuovo io che sono abituato a vedere qualche capra o pecora. La struttura è in perfetto stile coloniale ed è totalmente accessibile, sia le camere, con un ampio bagno, che gli spazi comuni. Piscina, centro benessere e termale a dire poco bellissimi, insomma un piccolo paradiso, adatto sicuramente alle coppie in luna di miele (come dargli torto del resto) e a tutti coloro che vogliono godersi della sana beatitudine.

Ma è il safari il vero motivo per cui siamo qua ed appena arriva l’ora del tramonto, saliamo su un fuoristrada aperto; è molto alto ma c’è una pedana che facilita l’entrata a bordo. Il safari è una delle attività più accessibili per una persona con problemi di mobilità: si rimane comodamente seduti su una jeep oppure (per chi ha problemi di movimento e/o utilizza una carrozzina elettrica) su un pulmino con pedana elettrica. Gli amici di Endeavour Safari sono espertissimi in quanto organizzano safari in tutto il Sudafrica, in Namibia e Botswana. Partiamo con John, sarà il nostro ranger di riferimento in tutti i game che faremo, e Bryan il tracker che si posiziona nella parte anteriore ed esterna dell’auto seduto su un seggiolino con la funzione di “piccola vedetta”, toglierà sterpaglie ed arbusti. Appena mi siedo sul fuoristrada mi sento il principe di Mompracem, mi manca solo il foulard per essere un Sandokan rotellato, come sempre l’importante è crederci.

 John ci spiega da subito che probabilmente vedremo tutti i “big five”, specificandoci che i leopardi sono quelli più difficili d’avvistare. Mai dire mai ! In realtà non vedo l’ora di vedere l’elefante, è il mio animale preferito, mi piace per la sua potenza e per la sua pacatezza e per il fatto che se gliele fai girare sono guai per tutti persino per il Re della foresta. Non faccio in tempo ad esprimere il desiderio di vederlo che eccolo lì, bello e maestoso. Un giovane maschio si avvicina verso di noi. Il ranger ci dice che per gli animali siamo un unico elemento (auto e passeggeri), per questo motivo non bisogna scendere o sporgersi eccessivamente dal fuoristrada. E’ una grande emozione vederlo avvicinarsi; solo quando te lo vedi di fronte e senti i suoi passi, che fanno tremare il terreno, ti rendi realmente conto della sua potenza. Se decidesse di attaccarti e capovolgerti lo farebbe in tre secondi, è lui a decidere e a pensarci ti viene un po’ di tremarella. Intanto il sole inizia a scendere ed ecco che facciamo la conoscenza di una famiglia di leoni.

Mal d’Africa

Le giornate al Kapama Game Riserve trascorrono in pieno ozio, stacchi i fili con la realtà ed entri in contatto con i tempi della natura. Alle 5 del mattino suona la sveglia, colazione e poi pronti per il safari. Fa freddo, è inverno e queste sono tra le giornate più fredde dell’anno così ci copriamo per bene, anche con la copertina che ci viene fornita. Certo, ora sembriamo più nonna Belarda che Sandokan ma va bene così. I colori della savana sono tenui, diventano sempre più forti man mano che passano i minuti e le ore, appena arriva il sole anche il freddo svanisce. Gli animali poco alla volta iniziano a muoversi e a farsi vedere, per abbeverarsi nei laghetti e nel fiume e per cercare un po’ di cibo. Non è facile descrivere quanto sia emozionante vedere tutti questi animali, certo in alcuni momenti pare di essere in un grande zoo safari vista la facilità con cui gli animali si fanno vedere e l’apparente naturalezza con cui sopportano la presenza umana. Si avvicinano e convivono in maniera spontanea e pare che il rumore dei motori, piuttosto che dei milioni di “click” fotografici, non gli dia fastidio.

John spiega curiosità ed aneddoti del regno della savana, è un omone grande e grosso, il tempo che dedica a questo lavoro è molto, resta a Kapama per tre settimane consecutive e poi ne ha una di riposo per stare con la sua famiglia. Le uscite che vengono effettuate con i turisti sono due al giorno (alba e tramonto) della durata di circa 3 ore ciascuna, i gruppi cambiano ogni tre giorni; mi chiedo con quanta gente ha che fare, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno. Arrivano queste mandrie di turisti affamati ed elettrizzati, tutti con l’adrenalina da Sandokan (come noi del resto), tutti con domande da inviati da National Geographic. Non dev’essere facile da gestire, ma la grande passione di John sono gli animali e questo lavoro gli da la possibilità di restare a stretto contatto con loro, spesso lo vedo sorridere e guardare con occhi inteneriti i cuccioli di leone che giocano con la mamma oppure l’ippopotamo che sbadiglia piuttosto che il rinoceronte o l’elefante che con aria annoiata tentano di trovare un luogo tranquillo in cui riposare. E’ bello vedere questa passione nei suoi occhi nonostante l’abitudine della quotidianità. Questo è amore, è vero amore.

Dopo l’uscita mattutina si rientra al campo, si ozia al sole, ci si rilassa e soprattutto si mangia in attesa del safari serale all’ora del tramonto. Uno dei momenti più emozionati è quando, vicino ad un laghetto, ci soffermiamo a guardare due leonesse e un cucciolo: è un piccolo di due mesi, la madre e la zia lo sorvegliano, giocano con lui, lo coccolano: è tutto così naturale e familiare. Noi li guardiamo, li fotografiamo e il cuore fa “pluf” per la tenerezza. Guardare questo spettacolo pare irreale; il cielo, il tramonto, il silenzio, la savana infinita ed ad un tratto vivi quello che avevi sentito letto nei libri o visto nei documentari! Diventa notte ma la savana non si addormenta, c’è un altro spettacolo che va in onda sugli schermi africani: il cielo. Anche questo lo dicevano, che le stelle dell’Africa sono diverse, sono più vicine. John ad un tratto si ferma, spegne le luci e come un personaggio di Star Trek tira fuori un bastone che s’illumina e da cui fuori esce un raggio laser, inizia così, come fosse una bacchetta sulla lavagna, ad indicare stelle e i pianeti e poco più in là ecco che tra gli alberi salta fuori anche l’ultimo big five che ancora dovevamo incontrare, quello più raro: il leopardo ! Che meraviglia, inizio a fare “ohhh ohhh” come i bimbi. Ahi ahi inizio a sentire i primi sintomi del mal d’Africa. e se sono stato contagiato? E se non esistono farmici per farmi guarire?

Scalabrini Center

A Cape Town c’ero già stato qualche anno fa, nel 2010, e avevo trovato un’ottima sistemazione per l’alloggio presso la Guest House dello Scalabrini Centre. Vi sono 9 camere con bagno accoglienti e ben pulite, in comune c’è una cucina moderna con ampio salone in cui si può cucinare e fare la colazione. La camera in cui dormivo è molto ampia e luminosa con bagno accessibile altrettanto grande e comodo, il prezzo è di circa 25/30 euro a notte. Tutto il piano è accessibile, unico neo sono le porte d’ingresso al piano inferiore, da soli in rotelle si fatica parecchio ad aprirle e bisogna fare qualche acrobazia ma se accompagnati non vi è alcun problema. Raramente mi sento di consigliare una struttura ma Scalabrini Centre mi ha sorpreso in quanto raramente si trovano luoghi accessibili ad un prezzo altrettanto accessibile. Alloggiando allo Scalabrini Guest House si sostengono i progetti offerti dal Centro, infatti, tutte le entrate vanno a supportare i progetti di assistenza e sviluppo per il sostegno dei rifugiati e richiedenti asilo in Sudafrica.

La Guest House si trova Cape Town CBD (Central Business District) – in una strada tranquilla nel centro della città – al primo e al secondo piano dell’edificio il Centro fornisce assistenza, formazione ed informazioni per l’accesso ai servizi locali (per esempio come e dove effettuare il test per l’HIV), come avere accesso alla scuola oppure per un’assistenza legale, sociale, sanitaria o psicologica. Il Centro riceve circa 2000 persone ogni mese, vi sono delle aule informatiche e per l’insegnamento dell’inglese. Ritornando a Cape Town sono ben felice di ritornare a trovare gli amici dello Scalabrini, in particolare ci rechiamo presso la Lawrence House, uno dei progetti più importanti dello Scalabrini a Cape Town. Ci accoglie Giulia Treves, la coordinatrice del centro, è nata a Stoccarda da madre trentina e padre ligure. E’ una ragazza solare, allegra e molto pratica, si vede che ha una buona dose di esperienza alle spalle. E’ cresciuta nel mondo Scalabriniano, ha sempre voluto lavorare nell’immigrazione, per questo dopo l’università ha deciso di verificare sul campo i progetti.

Lawrence House è una comunità famiglia, nata inizialmente per dare una sistemazione/casa ai bambini rifugiati che provengono dai paesi vicini al Sudafrica in particolare Angola, Uganda, Zimbabwe, Congo e Namibia, ora vi sono anche bambini sudafricani orfani o abbandonati o con gravi problemi familiari. L’obiettivo è quello di fornire assistenza residenziale, servizi terapeutici e di legge ai bambini in difficoltà, compreso l’alloggio, i pasti, l’istruzione e l’assistenza sanitaria, promuovere il ricongiungimento familiare, ove possibile ed opportuno e lavorare per il reinserimento dei bambini nella società. I ragazzi inseriti alla Lawrence House sono 25, vengono affidati dal Tribunale dei minori (è molto scrupoloso e burocratico) spesso vi restano sino ai 18 anni o 21 anni se vanno a scuola, raramente vengono affidati o adottati, molti soffrono di disturbi post traumatici dovuti al loro periodo vissuto nelle loro famiglie d’origine, alle violenze di guerra e al viaggio effettuato per arrivare in Sudafrica, purtroppo sanno solo loro quello che hanno visto e subito. Gli operatori che lavorano al centro, oltre al gruppo italiano, sono europei ma molti sono sudafricani. E’ indispensabile il loro apporto in quanto conoscono le varie lingue sudafricane e la cultura del paese, in questo modo garantiscono un maggiore inserimento sociale ai ragazzi. Giulia ci spiega che la legge sudafricana per i rifugiati e tra le migliori e più progressive al mondo, poi si scontra con la burocrazia e il contesto sociale (mi ricorda un altro paese… che fa belle legge che però non vengono rispettate). Le medicine salvavita sono gratuite anche per i rifugiati (per esempio per i malati di AIDS), così come le visite mediche hanno un costo decisamente basso.

Durante la visita allo Scalabrini Centre di Cape Town apprendo quali sono i valori scalabriniani che non conoscevo: “La missione che la Chiesa ha affidato per mezzo del Fondatore, il vescovo di Piacenza, Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905) è di farsi migranti con i migranti, per edificare con essi, anche mediante la testimonianza della propria vita e della comunità. La Chiesa, che nel suo pellegrinaggio terreno si accompagna specialmente alle classi più povere ed abbandonate; aiutare inoltre gli uomini a scoprire Cristo nei fratelli migranti e a cogliere nelle migrazioni un segno della vocazione eterna dell’uomo. Porta a sperimentare l’accoglienza di Gesù crocifisso e risorto, compagno indivisibile, riconosciuto specialmente nei migranti più poveri e sradicati. Ero straniero e mi avete accolto (Mt 25,35). È lo stesso Cristo che chiama a prendere parte al dolore e alla speranza dell’uomo migrante, a scendere con Lui nelle situazioni più dure e ingiuste, segnate dalla frammentazione e dalla dispersione. Camminando sulle strade dell’esodo con i migranti di ogni etnia, cultura e religione. Attraverso il quale egli vede nello stesso dramma dell’emigrazione una via di unificazione della famiglia umana in Cristo”.

E’ bello ascoltare l’energia e la vitalità di Giulia e certo non dev’essere facile fare una scelta come la sua o come quella degli altri operatori che lavorano nei vari progetti in giro per il mondo. Il loro non è solo una scelta di lavoro ma è un progetto di vita che, forse, li può limitare nelle scelte sentimentali ed affettive ma la voglia di aiutare gli altri e di vivere una vita a servizio degli altri è sicuramente più appagante. Ci spiega che ha pochi amici sudafricani e non vive da sudafricana. I suoi amici sono per la maggior parte rifugiati, il fidanzato è del Congo e sono tante le culture  con cui è in contatto: quella nera, quella meticcia e tutto questa è appagante al punto di non sentire la mancanza dell’Europa.

Mi guardo in giro per questa casa, i ragazzi girano tranquilli, oggi è il primo giorno delle vacanze invernali pertanto se la prendono con comodo, inoltre sono venuti a trovarli un gruppo di famiglie brasiliane. Le famiglie arrivano, cucinano e portano regali e passano la giornata insieme. Ai ragazzi manca l’appartenenza ad una famiglia, sono in molti a non avere un senso di famigliare, molti pensano che la loro famiglia sono gli operatori che certamente ci mettono tutta il loro amore ma sono dei professionisti, degli educatori per questo è importante che stiano insieme ed osservino delle famiglie. Mentre io e Giulia chiacchieriamo, le signore brasiliane cucinano, i ragazzi stanno ancora un po’ nelle loro camere e dal terrazzo si sentono arrivare incitamenti, sono dovuti ad una partita che è in corso. Davanti ad un tavolo da biliardo una ragazzina seria e concentrata sta tirando una steccata e “bang” molte delle palle finisco a buca, la partita è con Alessandro che inizialmente ha preso la partita sottogamba. Mai errore fu così fatale, con Seble non si scherza ! Non gioca tanto per partecipare ma per vincere, senza volere favoritismi perché è più piccola ma nemmeno è benevola nei confronti dell’avversario per alcune sue imprecisioni. E’ una partita di biliardo, amichevole, ma va vinta, così come tutte le battaglie piccole o grosse vanno vinte e lei lo sa molto bene e non vanno sottovalutate, vanno guadagnate. Così Seble vince, si prende gli applausi di noi spettatori ma soprattutto la stretta di mano di Alessandro, una stretta che racchiude tutti i significati che ne derivano: saluto, congratulazioni ma soprattutto rispetto, tanto rispetto per l’avversario/amico.

Mentre esco dalla Laurence House leggo un cartello, scritto a mano: “Emigrano i semi sulle ali dei venti, emigrano le piante da continente a continente, portate dalle correnti delle acque, emigrano gli uccelli e gli animali e, più di tutti, emigra l’uomo, solo o in gruppo ma sempre strumento di quella Provvidenza che presiede agli umani destini e li guida, anche attraverso a catastrofi , verso sola una meta, che è il perfezionamento dell’uomo sulla terra e la gloria di Dio nei cieli” – (Giovanni Battista Scalabrini)

Bye bye Sudafrica

Lasciamo il Sudafrica, con quella malinconia da fine viaggio, felici di aver visto e scoperto un paese molto speciale e sapendo che c’è ancora molto da vedere e scoprire. Toccherà tornarci magari proprio durante la loro estate/primavera periodo in cui da noi si stringono i denti dal freddo. La differenza che c’è tra l’aver fatto un bel viaggio e un viaggio che non dimenticherai la fanno gli incontri, certo anche le emozioni che ti hanno dato un panorama o un tramonto, ma sono gli sguardi e i sorrisi e le conversazioni con le persone quelli ti porti a casa.

Ed ora che sono tornato mi arrabbio quando sento dire: “Ah si il Sudafrica dev’essere bellissimo ma è pericoloso, c’è troppa criminalità!!”.  Ma perché certi luoghi vengono calunniati in questo modo? Al punto da non essere visitati o presi in considerazione? Certo il Sudafrica è ricco di contradizioni, il razzismo non è evaporato in un baleno, anni di apartheid non si possono cancellare cosi facilmente. E anche vero che ci sono le township e da lì spesso esce criminalità, ma è una pezzo del paese che non è il Sudafrica, è una parte, a mio parere, una minima parte. Quando giri per il Sudafrica trovi persone curiose di conoscerti, di parlare e di comunicare molto di più che nelle nostre fredde e veloci città. C’è la voglia di sapere chi sei e da dove arrivi, quando entri in zone che vengono definite “off-limits” per i turisti trovi atteggiamenti di ospitalità e di condivisione; certo sono dell’idea che in luoghi in cui la povertà è così radicata bisogna evitare di sfoggiare macchine fotografiche ed obiettivi da migliaia di euro, si può evitare di utilizzare l’iphone che vale quanto la loro intera casa o atteggiarsi da piccoli missionari borghesi. Ma questo è solamente rispetto.

Spesso in altri paesi, quando dici che sei italiano/europeo, alle persone s’illuminano gli occhi e iniziano a raccontarti del loro desiderio di venire a visitare o a vivere nel nostro paese. In Sudafrica succede di meno; sono curiosi di visitare ma hanno voglia di rimanere e di vivere lì, di lavorare e cambiare la loro terra e lo si percepisce, per esempio, dalla voglia di aumentare l’affluenza turistica e di renderlo un bellissimo paese appetibile, accogliente ed accessibile, talmente appetibile che sono gli europei che vogliono andare a vivere là, per l’economia in crescita, per avere la possibilità di vivere a stretto contatto con la natura e di avere ritmi di vita più morbidi dei nostri.

Il Sudafrica è un paese così accessibile da traovare servizi per disibili quasi più facilemente che nella nostra Europa. Pensiamoci quando sentiamo dire, a tambur battente, che un luogo è pericoloso, visitiamolo e poi giudichiamolo. Allo stesso modod non pensiamo che un paese sia poco accessibile alle rotelle solamente perché si trova in un paese meno “occidentale” perché anche in questo caso scopriremo che è un’altra cavolata. Si lascia il Sudafrica, i sorrisi, la natura e gli animali, ringrazio South African Tourism per avere dato a me, a Guillermo Luna e Alessandro Abrusci la possibilità di “farci ispirare”.

ALESSANDRO ABRUSCI

Nato nel 1985 a Napoli, cresciuto in Puglia, cittadino del mondo. Ha sempre orientato la sua vita verso la fotografia. Ha una laurea in Tecnologie della Comunicazione Multimediale presso l’Università di Ferrara, laureato in Grafica, ha un master in Editor di comunicazione digitale. Ha lavorato nel settore del reportage per grandi aziende a livello nazionale come Barilla e Mondadori e aziende internazionali come l’Ente del Turismo Tunisino.

GUILLERMO LUNA

Nato a Funes in Argentina, dove ha iniziato la sua attività fotografica nel settore commerciale e nella pubblicità. Nel 1996 realizza il suo primo reportage sulla raccolta del cotone degli aborigeni di Pilagas nel Nord dell’Argentina, e da allora si è dedicato con sempre maggiore passione alla fotografia sociale e di reportage, concetrando la sua attenzione sull’uomo.